lunedì 13 luglio 2015

Si dimette il governo di unità nazionale palestinese, mentre lo Stato Islamico minaccia Gaza

Lo scorso 17 giugno il primo ministro palestinese Rami Hamdallah ha rimesso il mandato del governo di unità nazionale nelle mani del presidente Abu Mazen sanzionando così l’impossibilità di operare per il governo nato nel giugno dello scorso anno. Ufficialmente le dimissioni sono motivate dall’insuccesso del piano di riconciliazione tra Hamas e Fatah, ma il vero motivo che ha provocato le ire dello stesso Abu Mazen sono le trattative segrete che Hamas starebbe conducendo con Israele. E intanto le organizzazioni salafite, alleate del gruppo Stato Islamico, si rafforzano nella Striscia
Milano, 13 luglio 2015
Trattative smentite dall’organizzazione islamica, ma le cui voci nelle ultime settimane si sono fatte sempre più consistenti fino ad arrivare alla dettagliata ricostruzione del quotidiano giordano Ad Dustour: fine delle ostilità da parte di Hamas nei confronti di Israele per 5 o 10 anni in cambio della fine del blocco di Gaza operato dagli israeliani e di investimenti sostanziosi da parte delle monarchie del Golfo nella Striscia; si parla anche del progetto di un “porto fluttuante nel Mediterraneo” per importare merci a Gaza. Un ruolo di primo piano è giocato dall’Arabia Saudita che si sta incredibilmente avvicinando, da un alto, a Israele (avvicinamento, altrettanto incredibilmente, accolto con slancio dal governo di Netanyahu) e, dall’altro, ad Hamas (l’Arabia Saudita è sempre stata piuttosto tiepida con il regime di Hamas appoggiando piuttosto al Fatah nel contrasto tra i due gruppi).
Cosa ha determinato questa inversione di rotta del nuovo re Salman (succeduto al fratellastro ʿAbd Allāh nello scorso gennaio)? E d’altra parte, cosa induce Israele a favorire la relazione con la monarchia saudita? La risposta principale è riassunta in un’unica parola: Iran. La crescente influenza della Repubblica iraniana nell’area (vedi la guerra nello Yemen, ma anche quella in Siria), la fine del suo isolamento internazionale grazie all’accordo sul nucleare preoccupano non poco i monarchi sauditi che con l’Iran si stanno giocando la partita dell’egemonia sul mondo islamico, mentre i timori di Israele nei confronti di Teheran sono noti (più per lo storico sostegno dell’Iran agli Hezbollah libanesi che per un ipotetico attacco diretto, assai improbabile sebbene propagandisticamente sostenuto da Netanyahu). Riad e Tel Aviv, inoltre, temono gli effetti del raffreddamento dei rapporti con l’alleato americano e guardano con preoccupazione all’instaurarsi di nuove relazioni tra Iran e Usa.
Un avvicinamento tra Hamas e Israele è inoltre favorito, come vedremo più avanti, dalla dura repressione delle organizzazioni salafite vicine al gruppo Stato Islamico da parte di Hamas. E in fin dei conti da questa trattativa Israele non ha nulla da perdere mentre ha molto da guadagnare: se va a buon fine si assicura la tranquillità al confine con la Striscia; se dovesse fallire, il contesto attuale non cambierebbe di molto. In caso di esito positivo della trattativa Israele si assicurerebbe quindi una pace relativa senza doversi impegnare in un processo di pace che implicherebbe necessariamente rinunce e compromessi.
Si tratta di una partita a scacchi dove Abu Mazen non ha alcun ruolo, se non quello di spettatore. È più che naturale, quindi, che non voglia agevolare un processo che rafforzerebbe ulteriormente Hamas e renderebbe ancora più difficile la ripartenza delle trattative per la creazione di un unico Stato Palestinese.
Ma come si era arrivati al governo di unità nazionale formato nel giugno 2014?

2014: LA SPINTA DELLA POPOLAZIONE ALLA RICONCILIAZIONE TRA FATAH E HAMAS

Nonostante i riconoscimenti formali che la Palestina di Abu Mazen è riuscita a raccogliere negli ultimi anni[1], il processo di pace è stato costellato da continui fallimenti e da un sostanziale stallo, mentre la politica degli insediamenti da parte di Netanyahu, in particolare a Gerusalemme Est, è proseguita senza sosta.
Contemporaneamente le condizioni di vita nei Territori sono diventate sempre più allarmanti: secondo un report rilasciato dalla Banca Mondiale nel settembre 2014, un quarto della popolazione palestinese vive sotto la soglia di povertà (il doppio a Gaza rispetto alla Cisgiordania); il tasso di disoccupazione è del 45% a Gaza (63% quello relativo alla disoccupazione giovanile) e del 16% (25,3% i giovani) in Cisgiordania. Nonostante questa situazione, o forse proprio per questo, la corruzione all’interno dell’Autorità Palestinese, in particolare tra i membri di al Fatah, assume dimensioni sempre più preoccupanti: Rafik Natsheh, capo della Commissione per la lotta alla corruzione voluta da Abu Mazen, ha rivelato che nel 2013 sono 60 i casi di corruzione finanziaria rilevati e che 70 milioni di dollari sono stati indebitamente sottratti dalle casse dell’ANP da funzionari corrotti. Ne consegue un progressivo calo di popolarità dell’ANP e in particolare di al Fatah.
Contemporaneamente tra il 2013 e il 2014, Hamas vive una profonda crisi diplomatica, dovuta sia alla guerra in Siria sia alla situazione egiziana, con ripercussioni dirette sulla propria attività nella Striscia, che limitano la capacità di intervento in quell’attività di welfare che le ha da sempre procurato il sostegno della popolazione. Hamas, in quanto derivazione dei Fratelli Musulmani, si è schierata (seppur non unanimemente) con il fronte anti Assad, allontanandosi dai suoi alleati, e finanziatori, tradizionali (Iran ed Hezbollah che appoggiano Assad). Contemporaneamente in Egitto, dopo le elezioni presidenziali del 2012 che avevano dato la vittoria a Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani, la presa del potere da parte del comandante in capo delle Forze armate egiziane, Abd al-Fattaḥ al-Sisi, comporta un irrigidimento della posizione del governo egiziano nei confronti di Hamas fino ad arrivare alla messa fuorilegge del movimento; l’utilizzo dei tunnel lungo il confine di Rafah (principale luogo dal quale transitano merci e armi verso la Striscia di Gaza) viene notevolmente limitato.
Questi elementi di forte debolezza delle due forze che governano i due tronconi di quello che dovrebbe essere lo Stato palestinese, convivono con il fatto che la popolazione è fortemente favorevole a una riconciliazione tra le due fazioni (Hamas e al Fatah).
A fronte di questo contesto, dopo svariati tentativi di avvicinamento con esito negativo, nell’aprile 2014 Fatah e Hamas firmano un accordo annunciando colloqui per la formazione di un governo unitario che verrà istituito nel giugno successivo e che, per la verità, fin dall’inizio non sembra avere basi molto solide: ad Hamas interessa che l’ANP paghi gli stipendi al corposo apparato di dipendenti pubblici, 45.000, assunti dall’organizzazione dopo il 2007 e che non venga smantellata la sua ala militare (Brigate al Qassam); l’ANP punta a ottenere la piena collaborazione nel passaggio di responsabilità a suo favore a Gaza e garanzie per proseguire i colloqui per il processo di pace. Infatti il capo dell’esecutivo unitario Rami Hamdallah ribadisce che la nuova amministrazione si atterrà alle linee previste per la prosecuzione dei colloqui di pace: riconoscimento di Israele, rifiuto della violenza e mantenimento di tutti gli attuali accordi.
Il nuovo esecutivo viene accolto in modo favorevole dalla comunità internazionale e ottiene l’appoggio dell’ONU, dell’Unione Europea e, inaspettatamente, anche dell’amministrazione Obamanonostante la veemente protesta di Netanyahu.
L’operazione Margine di protezione con la quale Israele attacca Gaza nell’agosto 2014  vede di fatto la sospensione degli incontri per rendere operativo il nuovo esecutivo che riprenderanno solo alla fine di settembre, ma i rapporti tra le due parti rimangono tesi e si susseguono momenti di crisi aperta con proteste per il mancato pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza e accuse ad Hamas da parte dell’ANP di non rispettare gli accordi. L’epilogo sono le dimissioni di Rami Hamdallah.

GAZA...TRA CRISI UMANITARIA...

Ma qual è oggi la situazione a Gaza? Dopo 7 anni di isolamento, 3 operazioni militari di vaste proporzioni, nell’ultima delle quali per 50 giorni la Striscia di Gaza è stata sottoposta a bombardamenti devastanti, la popolazione è allo stremo.
A tutto ciò si è aggiunto un inverno particolarmente rigido: in dicembre, in cinque giorni a Gaza è caduta una quantità di acqua pari al 75% di un inverno normale, 10.000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro case e 1.500 abitazioni sono state danneggiate o distrutte dalle avversità atmosferiche.
Intanto la ricostruzione procede molto lentamente. Nonostante in base agli accordi per il cessate il fuoco Israele dovesse consentire l’ingresso nella Striscia di materiale edile, il blocco è sempre attivo: secondo le organizzazioni umanitarie sarebbero necessari 800.000 carichi di camion per ricostruire case, scuole, ospedali distrutti dai bombardamenti, ma in dicembre è stato consentito l’accesso a 795 camion e in gennaio a soli 579. Nel frattempo i fondi disponibili per la ricostruzione si vanno esaurendo: le casse dell’ANP sono praticamente vuote, anche a causa della ritorsione israeliana sulla mancata restituzione delle imposte indirette; il 12 ottobre si è svolta, con grande risonanza sui media, la Conferenza del Cairo per la ricostruzione di Gaza che ha visto radunarsi 50 paesi (dal Qatar, principale finanziatore, all’Ue, agli USA) e promettere complessivamente 5,4 miliardi di dollari, ma il 30 gennaio l’UNRWA ha annunciato di essere costretta a sospendere gli aiuti per tre mesi a causa della mancanza di fondi (i donatori della Conferenza del Cairo hanno addotto per il mancato rispetto degli impegni, l’instabilità politica della Striscia!).

... ISLAMIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ....

Ma i 7 anni di isolamento e di governo di Hamas sulla Striscia di Gaza hanno portato a un altro pesante impatto sulla popolazione: un progressivo processo di islamizzazione che sta modificando il modo di vivere degli abitanti di Gaza, soprattutto quello delle donne. Il radicamento di Hamas nel territorio è dovuto inizialmente a una sapiente politica di assistenza sociale della popolazione. In questa politica il ruolo delle donne è stato ed è centrale perché è su di loro che grava il peso maggiore del disagio sociale ed economico che vivono le famiglie di Gaza: supportando l’educazione dei bambini, fornendo cure mediche e aiuti alimentari, il principale interlocutore di Hamas nella società palestinese sono le donne.
E di queste ha raccolto i consensi, anche perché i valori religiosi propugnati dall’organizzazione, che fino alla presa del potere limitava gli accessi più integralisti, sono in linea con la parte più conservatrice della tradizione palestinese, soprattutto nelle aree rurali e nei campi profughi.
Hamas non disdegna l’impegno politico delle donne (nelle elezioni parlamentari del 2006 ne vengono elette 6), purché limitato agli ambiti considerati più prettamente femminili; anche con la vittoria nelle elezioni non ci sono inizialmente impatti diretti sulla vita sociale. Ma le cose iniziano a cambiare dopo la rottura con l’ANP e l’insediamento del governo di Hamas nella Striscia (2006). In alcuni casi il governo o le istituzioni pubbliche emettono norme o regolamenti che impongono o vietano direttamente determinati comportamenti, ma molto più spesso l’islamizzazione della società passa attraverso velate o esplicite minacce, l’ostracismo nei confronti di chi assume comportamenti non conformi, fino ad arrivare a veri e propri crimini verso coloro che non intendono seguire le norme di vita islamica.
Alle donne viene imposto l’hijab (termine con il quale nella versione più “leggera” si intende il velo che copre capelli e collo, mentre in quella più “completa” comprende anche una lunga tunica di colori sobri che copre interamente il corpo della donna), una ragazza non può sedere dietro a un uomo su uno scooter, diventa impossibile esibirsi in danze pubbliche, indossare un costume da bagno nelle spiagge, fumare in pubblico, servirsi di parrucchieri maschi[2].
Nell’aprile 2013 l’UNRWA annulla la Terza Maratona internazionale di Gaza a causa del veto delle autorità alla partecipazione femminile alla competizione.
La segregazione morale e sociale delle donne di Gaza che non seguono i più rigidi dettami islamici si inserisce, inoltre, in un contesto dove la violenza fisica sulle donne è in aumento: uno studio del Palestinian Central Bureau of Statistics del 2011 (campione 5.811 donne, 3.891 in Cisgiordania e 1.920 a Gaza) ha rivelato che il 51% delle donne sposate della Striscia (contro il 29,9% in Cisgiordania) ha subìto un atto di violenza da parte dei propri mariti nei 12 mesi precedenti, il 65% ha dichiarato che preferisce tacere sulle violenze subite tra le mura domestiche.

... E LE MINACCE DEL GRUPPO STATO ISLAMICO

Nel frattempo varie organizzazioni salafite, appartenenti quindi alla corrente più radicale dell’Islam sunnita, stanno espandendo la propria presenza nella Striscia (tra queste la Brigata Sheikh Omar Hadid, che ha rivendicato gli ultimi lanci di razzi sulla città israeliana di Ashkelon; ed è da attribuire a un gruppo salafita anche il rapimento e l’uccisione dell’attivista italiano Vittorio Arrigoni il 15 aprile 2011) dichiarando la loro adesione al gruppo Stato Islamico. Il quale, in un video di 16 minuti girato a Raqqa in Siria e diffuso agli inizi di luglio tramite i social networks, ha minacciato di estendere il dominio della sharia nella Striscia di Gaza accusando Hamas di non mettere in pratica una rigida interpretazione della legge islamica. La linea dura di Hamas nei confronti di queste organizzazioni ha portato a decine di arresti e ha indirettamente favorito i contatti per una tregua tra Hamas e Israele. L’espansione a Gaza di organizzazioni vicine allo Stato Islamico rischierebbe infatti di portare a un contatto diretto con Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), l’organizzazione affiliata allo Stato Islamico attiva nella penisola egiziana, responsabile dei recenti attacchi a postazioni militari egiziane nel Sinai, al confine con la Striscia. Certamente a Israele non può far piacere il consolidamento dello Stato Islamico ai propri confini meridionali (anche se sull'atteggiamento di Israele neiconfronti dell'Isis in Siria bisognerebbe aprire un capitolo a parte, quimi limito a segnalare l'articolo Se Israele scommette sull'Isis di Famiglia Cristiana), ma le condizioni subumane nelle quali è costretta a vivere la popolazione di Gaza e la totale mancanza di prospettive per un miglioramento della situazione spalancano le porte alle forme di estremismo più radicale
[1] Dopo che il 29 novembre 2012, la Palestina è stata promossa dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite da “entità non statuale” a “stato osservatore non membro” aumenta il numero dei paesi che riconoscono l’esistenza dello Stato palestinese passando dagli 82 del 1988 ai 136 di oggi, con il Vaticano ultimo in ordine di tempo; altro importante riconoscimento avviene il 7 gennaio 2015 quando il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon accetta la richiesta di adesione alla CPI presentata dall’ANP.
[2] Due esempi per tutti: il 7 ottobre 2009 all’apertura del Palestinian Heritage Museum di Gaza era prevista l’esibizione di un gruppo di ragazzi e ragazze in una danza popolare; alle porte del museo si sono presentati alcuni uomini di Hamas imbracciando dei Kalasnikov e proebendo alle ragazze di danzare in quanto non religiosamente corretto; nel 2007 il gruppo islamico “Spade della verità” ha minacciato di uccidere le conduttrici della TV se non avessero indossato l’abbigliamento islamico.